Alcune note dalla krajina bosniaca. Il vuoto come critica al progetto di superamento

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Richard Lee Peragine

Case abbandonate ai piedi del monte Plješevica. Peragine, 2023



“Riforme” e “Investimenti” sono due diversi strumenti previsti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali italiano all’interno della quinta missione del PNRR “Inclusione e Coesione”. Come parte delle azioni per gli Investimenti, ingenti risorse andranno ai Piani Urbani Integrati, ovvero a progetti attuativi che, tra i molti obiettivi, mirano al “superamento degli insediamenti abusivi in agricoltura”. 

La Pista a Borgo Mezzanone ricade in questa lista di abusi insediativi e, in quanto tale, è “da superare”. 


La Pista di Borgo Mezzanone



Ma cosa significa “superare” la pista, e in che modo, con quale progetto? Cosa è presupposto, cosa rimane solo implicitamente presente nell’obiettivo “di creare o ristrutturare alloggi per i lavoratori del settore agricolo […] ed eliminare così le infiltrazioni di gruppi criminali”, come riportato nei Piani Urbani Integrati?

La violenza semplificatoria del termine superamento richiede maggiore attenzione.

Si tratta allora di concentrarsi sulle implicazioni del concetto di superamento, in particolare rispetto al progetto dello spazio e dunque al progetto politico che ne conseguono.

Lungi dall’essere un caso isolato, il superamento della Pista risponde al percorso di intensificazione, ormai decennale, dell’apparato securitario e dei meccanismi di controllo dei confini dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. In questo senso, possiamo iscrivere il progetto di superamento degli insediamenti abusivi nella pian agricola del foggiano all’interno del quadro più ampio del progetto di gestione delle migrazioni; geografia di punta del quale è la cosiddetta Rotta Balcanica.

La Rotta fa riferimento ad un contesto storico e geografico complesso. Il confine fra Bosnia ed Erzegovina e Croazia, il settore in cui il cantone nordoccidentale dell’Una-Sana in Bosnia e le contee centrali della Croazia si incontrano, è uno dei nodi principali che formano la Rotta; una regione storicamente definita, non senza ambiguità, “krajina”, ovvero “frontiera”. 

È importante sottolineare, contro una tendenza alla de-contestualizzazione, come la gestione delle migrazioni nella krajina oggi sia parte di un progetto biopolitico di più lunga durata, scatenato attraverso la guerra degli anni ‘90: quello della transizione dal socialismo jugoslavo alla democrazia liberale. Il migration management della Rotta Balcanica costituisce, in altre parole, una forma di governo o di governance che acuisce le complessità della Bosnia post-socialista e, in modo particolare, della krajina bosniaca. 

Lo studio di questa complessità a partire dallo spazio ha portato, altrove, a tracciare una relazione fra sovranità e forme spaziali caratterizzate da uno stato di rovina e abbandono che potremmo chiamare, ambiguamente, forme del vuoto, in Bosnia molto numerose.

Il vuoto, in relazione al potere sovrano, intrattiene, una relazione duplice: concreta—in riferimento a forme spaziali vuote, che abbastanza intuitivamente non sono vuote, eppure vengono identificate in questo modo—e politico-metafisica—ovvero, il vuoto del potere, la sua origine infondata o la sua mancanza di fondamento, seguendo quindi un dibattito chiave della filosofia continentale, in particolare a partire dal 20mo secolo. 

La figura del vuoto, in senso spaziale, come la figura della foresta, dell’isola, della palude, ha influenzato e legittimato il modo in cui l’appropriazione dello spazio, nella modernità capitalistica, ha avuto luogo. La cosiddetta Natura, le rovine, ma anzi lo spazio stesso diventano, così, effettivamente vuoti. Una condizione spaziale e concreta che dura nel tempo e che è stata storicamente funzionale a definire rapporti di potere e permettere l’appropriazione capitalistica dello spazio. 

È in questo contesto che si è cercato di definire “un progetto del vuoto”, ovvero, l’organizzazione e articolazione operosa di questa condizione spaziale di rovina e abbandono: un progetto di dominazione attraverso l’appropriazione violenta dello spazio—la trasformazione forzosa della natura in un’arma—che si fonda sul vuoto e produce altro vuoto; o ancora, un insieme di operazioni di estrazione di valore—estrattive quindi—il cui bersaglio sono la vita umana e forme di vita non umana, e il cui scopo è esercitare un potere di controllo spaziale. In questo senso, questo progetto definisce uno specifico ambiente estrattivo e una configurazione territoriale basata sul vuoto, in cui forme spaziali di rovina e abbandono giocano un ruolo primario.

Questa appropriazione violenta del vuoto emerge nel confine croato-bosniaco, nel contesto della gestione delle migrazioni e, quindi, come parte della transizione, in riferimento a operazioni che sfruttano il carattere isolato del paesaggio carsico—prime fra tutte, le operazioni di abbattimento, taglio o disboscamento sul monte Plješevica, ad ovest di Bihać, la città principale del Cantone dell’Una-Sana, o il carattere isolato e selvaggio del territorio attorno al Temporary Reception Centre di Lipa; la ricerca da parte di persone migranti e la negazione da parte degli apparati polizieschi di edifici abbandonati o incompiuti, ad esempio, quella che doveva essere una casa di riposo e un ex-edificio amministrativo di un distretto industriale a Bihać; o, ancora, la presenza di cosiddetti residuati bellici esplosivi, o Explosive Remnants of War.

Queste tre figure e operazioni corrispondono ad altrettanti tipi di appropriazione spaziale violenta: geo-fisica, architettonica e ambientale (nella sua accezione riferita alla tossicità dell’ambiente). Queste operazioni pongono in evidenzia la progettualità del vuoto una volta che le consideriamo come parte del quadro storico-politico della transizione. 


La grande operazione di disboscamento su uno dei picchi di Plješevica che ha avuto inizio nel Maggio del 2020, finalizzata a localizzare e arrestare persone migranti che tentavano—oggi con molta meno frequenza—di passare il confine fra la Bosnia e la Croazia, seguendo i sentieri di montagna. Peragine, 2023



Su Plješevica—come sull’altopiano carsico in cui si trova il Temporary Reception Centre di Lipa, vicino all’omonimo villaggio abbandonato—la presenza minima di infrastruttura umana, le temperature molto rigide, il carattere “selvaggio” e la stessa frastagliatura appuntita della roccia carsica diventano strumentali alla polizia di frontiera per operare impunemente, e per la Natura, come spazio vuoto ed appropriabile della modernità capitalistica, di essere in qualche modo presentata come la causa per il ferimento, la debilitazione, e, talvolta, la morte di persone migranti.

Il disboscamento su Plješevica è una delle tante operazioni che attraverso il progetto di uno spazio voluminoso hanno trasformato mari, fiumi, montagne e altipiani, o la semplice scarsità di infrastrutture umane, in ambienti ostili. Ciò succede, ad esempio, sul confine fra Stati Uniti e Messico, fra Bielorussia e Polonia, fra Libia e Italia, nel Mediterraneo.

L’ambiente geo-fisico, quindi, non è un semplice scenario, sfondo passivo in cui si verificano le operazioni di gestione dei confini, ma è esso stesso reso operativo attraverso l’appropriazione violenta di elementi geo-fisici; usato in maniera coatta a dissuadere, ridurre e animalizzare la migrazione illegalizzata; provocando così la debilitazione e morte di persone migranti e, allo stesso tempo, rafforzando l’ambiente estrattivo già presente nel nordovest della Bosnia. 


Dom Penzionera, una casa di riposo lasciata incompiuta durante il periodo pre-bellico, è dapprima stata utilizzata da persone migranti ed è poi, per via di questa occupazione, stata vuotata nuovamente, ma anche transennata e pattugliata. Peragine, 2023



Come il “vuoto” della natura, le forme architettoniche in rovina e abbandonate della transizione giocano un ruolo chiave nel determinare e organizzare le operazioni messe in atto nel contesto della gestione delle migrazioni; quest’ultima parte fondamentale, attraverso l’appropriazione violenta dello spazio delle strutture di regolazione e dominio sorte in concomitanza con il periodo bellico. 

Questi spazi sono per lo più lasciati a loro stessi. A livello pianificatorio, ci sono infatti mancanze e incoerenze di tipo strutturale che contribuiscono ai processi di accumulazione, per lo più esogeni, e al mantenimento di disuguaglianze nella Bosnia post-socialista. Questa inconsistenza è dovuta alla complicata forma di governo istituita con la fine della guerra ed emerge, ad esempio, nella mancata cooperazione, nelle sovrapposizioni e interruzioni che si registrano fra le due entità sub-nazionali del paese—la Repubblica Srpska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina—come fra i cantoni della stessa Federazione, in materia pianificatoria e legislativa; o emerge anche nei processi di privatizzazione pre- e post-bellici e nei procedimenti burocratici e giudiziari in merito allo status delle proprietà, che gli stessi strumenti legislativi che dovrebbero porvi rimedio contribuiscono a rallentare, perché determinano processi di valorizzazione fondamentali per il proseguimento della politica interna ed estera attuale.

Questo vuoto architettonico non è casuale o improduttivo—come si è portati a pensare—ma parte integrate e costitutiva della logica del capitale che promuove l’ambiente estrattivo della transizione; parte dell’inazione, o dell’abbandono strutturale e sovrano, che caratterizza la gestione di popolazioni interne (cittadine) ed esterne (migranti) all’ordine statale nella transizione. 


Mine, bombe a grappolo ed altri residuati bellici esplosivi nei pressi di Veliko Očijevo. Peragine, 2022



Infine, la contaminazione da mine, bombe a grappolo e altri residuati bellici esplosivi. —tracce concrete della posizione delle linee del fronte durante la Guerra di Bosnia—co-producono e rinforzano una condizione territoriale ed architettonica di vuoto; una per cui l’ambiente stesso è gravemente inquinato o reso tossico, e lascia le persone più povere delle aree urbane e rurali, le persone migranti, quanto gli operatori dell’attività di sminamento, in una condizione di indeterminatezza radicale.

L’indeterminatezza provocata dalla presenza di ordigni inesplosi è una delle molte forme di waste colonialism nei Balcani Occidentali—o una logica di accumulazione attraverso la stessa contaminazione tossica dell’ambiente; attraverso rifiuti, scorie, o inquinamento. Nel contesto della gestione delle migrazioni e dei confini, risulta essere una tattica che spinge la mobilità delle persone migranti in zone sempre più pericolose, facilitando i respingimenti al confine. 

Nel cantone dell’Una-Sana, uno dei più contaminati in Bosnia, le operazioni di sminamento da parte dell’ente nazionale responsabile sono rallentate dalla mancanza di organico, finanziamenti ed equipaggiamento, quanto dalla divisione etno-nazionalista che si ripresenta in tutti gli ambiti del lavoro. Per di più, eventi geo-climatici dell’Antropocene stanno complicando e complicheranno ulteriormente le operazioni di sminamento, come hanno fatto le inondazioni del 2014, quando mine ed altri ordigni già mappati furono spostati, con conseguenze talvolta letali. 

L'appropriazione violenta e coatta di ambienti geofisici e costruiti apparentemente “selvaggi” o abbandonati e in rovina rende operativa la relazione fra potere sovrano e vuoto. Questa appropriazione segue una biopolitica più-che-umana—una logica vicina a quello che Povinelli chiama “geontopower” e che emerge nella gestione delle migrazioni nella krajina bosniaca—rende operativi questi ambienti, cioè, la Natura, ciò che è supposto come inerte e passivo, contro le persone migranti, relegandole in specifici ambienti d’eccezione; animalizzandole e deumanizzandole attraverso la libera appropriazione di ciò che apparentemente vuoto. Queste figure spaziali del vuoto rispondono a operazioni sovrane che presuppongono lo spazio come vuoto e astratto, nel mentre riproducendo le logiche di accumulazione e le strutture di regolazione e dominazione della transizione. 

Così facendo queste figure del vuoto evidenziano la co-implicazione fra gestione delle migrazioni e quella della transizione, ed esibiscono la relazione intricata, anche a livello spaziale, fra immigrazione ed emigrazioni forzate, deindustrializzazioni e privatizzazioni, guerre e violenza che si sono verificate nel passato, come oggi, in questo territorio.

A quasi trent’anni dalla fine del conflitto militare, questa transizione sembra ancora lontana dall’essere portata a compimento; il superamento delle condizioni precedenti alla pace, che la transizione si pone come obiettivo, è anzi sistematicamente contraddetto.

Vi sono quindi elementi del progetto del vuoto che possono aiutarci ad esporre l’ambiguità e i presupposti del progetto di superamento? Ma in che modo la krajina bosniaca risponde alle specificità spaziali della Pista?

Solo marginalmente, infatti, possiamo riferirci ai cosiddetti “makeshift camps”, campi provvisori e improvvisati, o sugli insediamenti informali—Helicopter Place o il parco cittadino di Velika Kladuša, una Kashmiri house vicino a Lipa, la Krajinametal, un campo come il Polje: la struttura e temporalità della gestione delle migrazioni non permette paragoni frettolosi. 


Casa sbarrata in seguito ad un’occupazione nei pressi di Bosanska Bojna. Peragine, 2023



Tuttavia, possiamo porre l’accento su come l’appropriazione violenta architettonica sia finalizzata a controllare e, anzi, rimuovere questi spazi; questi accampamenti presentati come esternalità negative e accidentali della società contemporanea.

Queste spazialità, sia urbane che rurali, in Bosnia, come in altre geografie della rotta balcanica, o si presentano come estremamente improvvisate e provvisorie, o come occupazioni, spesso anche di edifici molto grandi, come il Dom Penzionera; e il fatto che la Bosnia sia un paese a carattere ancora fortemente rurale fa sì che anche queste spazialità, rifugi e accampamenti, lo siano spesso state anch’esse.  La stessa risposta concertata fra apparati statali e non-statali ha spesso avuto a che fare con il rurale, come ben dimostra il campo di Vučjak, o quelli di Lipa I e poi Lipa II. 

Si potrebbe infatti suggerire che, nel contesto delle migrazioni in Bosnia, il superamento coincide con un ricollocamento violento ed obbligato da strutture informali a strutture formali; spesso da luoghi accessibili a luoghi inaccessibili e remoti. 

In questo senso la politica del superamento degli insediamenti informali (cioè abusivi) in Bosnia è consistita nello sfratto e nella negazione di questi spazi o edifici, a cui, nel tempo, sono seguiti dei ricollocamenti—accompagnati o meno—in strutture ufficiali.

Il TRC di Lipa—collocato su un altopiano ad 800 sul livello del mare e 40 km da Bihac— è quindi superamento; il TRC di Salakovac—a 15 km da Mostar—è superamento; il centro nel villaggio di Delijaš—a 15 km dalla cittadina di Trnovo, al confine inter-statale fra Repubblica Srpska e Federazione, a 40 km da Sarajevo—è superamento; quello di Ušivak—nel quartiere a dir poco periferico di Sarajevo di Hadžići—è superamento. 

Questi sono centri senza o con pochi collegamenti a zone più servite, circondati da aree densamente minate, in cui infatti il conflitto fu particolarmente violento e, quindi, in cui la popolazione locale—al netto degli spostamenti forzati che hanno avuto luogo durante e dopo la guerra—è spesso povera, reduce, poco numerosa, isolata.

Ma emerge un altro carattere del progetto del vuoto che ci permette di elaborare alcune contraddizioni del progetto di superamento in Bosnia, e, di rimando nel foggiano. Ovvero, se la gestione delle migrazioni è parte del progetto biopolitico più-che-umano della transizione, il superamento acquista anche un’altra dimensione, legata alle politiche di espansione del progetto europeo.

L’integrazione nella UE è, in questo senso, superamento: l’integrazione nell’ordine della democrazia liberale europea, nella narrativa della Transizione, implica che i Balcani Occidentali—ovvero i sei paesi formalmente candidati; la Bosnia da molto poco—si lascino alle spalle la loro arretratezza balcanica, l’odio atavico e tribale che avrebbe causato la guerra, il comunismo dittatoriale, per andare verso la maturità democratica e pacifica. 

La narrativa della Transizione—a cui dobbiamo concedere ora una T maiuscola—è in questo senso razzista, teleologica ed escatologica. In Bosnia, paese a maggioranza musulmana, questo discorso viene applicato, come ha da poco intimato il ministro Piantedosi, per giustificare un inasprimento dei controlli al confine quale lotta alla minaccia del terrorismo islamico. In questo contesto, la Transizione assegna ed essenzializza le identità di popoli costituenti (Serbi, Croati e Bosgnacchi); rinvia da quasi trent’anni una promessa di salvezza, giustificando nel mentre l’indebitamento monetario; funge da laboratorio della governance extraterritoriale euro-atlantica; induce il governo ad accettare l’esternalizzazione delle frontiere in cambio di un avanzamento del processo di integrazione. 

Quello di transizione in verità contiene in sé il concetto stesso di superamento. Al contrario della nozione di trasformazione, che allude ad uno stato già completato di un processo o periodo, il termine transizione indica un processo, un periodo di cambiamento da uno stato all’altro—indica quindi una durata e un atto ancora da realizzarsi. 

Transitare, paradossalmente, è un verbo intransitivo che significa essere di transito, di passaggio. Se ci atteniamo a una interpretazione della dialettica hegeliana riduttiva, che la modernità occidentale, e il paradigma liberale capitalistico, ha incorporato appieno nelle nozioni di progresso, libertà e unione, una transizione non può che muoversi verso un momento successivo che, in questa concezione della storia lineare e teleologica, costituisce una fase migliore, superando la negatività per raggiungere una completezza o totalità.

Attraverso un apparato concettuale e un discorso su questa temporaneità come momento circoscritto di cambiamento, la Bosnia nella Transizione, e con essa gli altri paesi dei Balcani Occidentali, è di fatto pilotata da un “prima” cattivo ad un “dopo” buono, posti come stadi progressivi ed antitetici della storia.

La negatività dell’insediamento abusivo, così da PNRR, rimane da superare per costituire una comunità inclusiva, unita e sostenibile. 

Il concetto di transizione nel contesto dei Balcani, in questo modo, ben si applica anche alla cosiddetta “transizione verde” o “ecologica” e può forse fornire qualche elemento per pensare, criticamente, il presupposto che si annida nella retorica liberale dei Piani Urbani Integrati, oltreché le implicazioni del concetto di superamento, al di là del suo carattere storicamente e geograficamente situato.

Indubbiamente la rotta balcanica in Bosnia presenta delle specificità che per essere comparate alla Puglia richiederebbero molta attenzione—talmente diverse, anzi, che forse non risulta possibile farlo. 

Ciò non esclude però l’esistenza di migrazioni interne o di ritorno che ci permettano di considerare insieme questi due contesti. 

Storie personali di migrazione forzata in questo senso gettano luce sul modo in cui il lavoro—stagionale, migrante, schiavistico—traccia traiettorie di impiego fra Bosnia e le enclavi agro-industriali del foggiano.

Possiamo dire che lo sfruttamento nel comparto agro-industriale, in quanto carattere strutturale della società capitalistica, in certa misura, concorre ad influenzare la gestione delle migrazioni e quindi a muovere la rotta stessa. 

Ciò che unisce queste due geografie è allora lo sfruttamento, o l’iscrizione delle persone migranti nel sistema di produzione, quale elemento chiave per la regolazione del mercato globale del lavoro. La gestione dei confini, in quanto esclusione inclusiva di forza-lavoro a bassissimo costo e complesso tecno-industriale di accumulazione, di fatto risponde perfettamente alla logica del capitale.

Ciò che però accomuna il progetto di gestione delle migrazioni in Bosnia quale frontiera esternalizzata dell’UE e il progetto di gestione dello sfruttamento in agricoltura in Italia è il presupposto che si possa superare gli insediamenti informali senza intaccare le strutture economiche, e perciò politiche, che ne regolano la formazione. 

E che una volta superati, non si ripresenteranno. 

E di gestione si tratta, in quanto, a differenza della retorica sul contrasto allo sfruttamento del lavoro agricolo—"la mela marcia”—quest’ultimo è già iscritto nella logica di estrazione di valore, lungo tutta la filiera dell’industria agroalimentare: è strutturale.

Non a caso, entrambe sono, inoltre, questione di progetto, la cui nozione implica costitutivamente la transizione quanto il superamento: i Piani Urbani Integrati si presentano come una produzione puramente pianificabile; una realizzazione che trasforma una situazione politica esistente apparentemente migliorandola attraverso la sola modificazione spaziale. In questa prospettiva rovesciata, superare gli insediamenti abusivi (effetto) supererà lo sfruttamento (causa), insieme alle sue accidentalità “marce” (la criminalità). 

La Pista ci richiede, al contrario, di scardinare i presupposti violenti e semplificatori del superamento e del progetto, e, in altra misura, della transizione. In che modo, allora, il vuoto, così come si presenta nella sua relazione al potere nella krajina bosniaca, può fornire elementi alla critica del progetto di superamento? 

Il monte Plješevica e Lipa sono alcuni fra gli ambienti con la più alta biodiversità in Europa; Dom Penzionera e altri edifici sono stati usati come rifugio e spazio di resistenza nel contesto delle migrazioni, intersecando le storie di altre lotte locali; i residuati bellici esplosivi hanno preservato contesti ambientali da ulteriore sviluppo urbano. Il vuoto, al di là di ogni appropriazione, si pone come intrattabile: come resistenza al progetto moderno che pone lo spazio come vuoto—è questo spazio in rovina e in abbandono, con le sue specificità ecologiche e di utilizzo che muove una critica della pretesa metafisica del potere, così come alla sua linearità dialettica. 

Si può porre, in campo architettonico e progettuale, ma anche politico, la necessità di partire dal vuoto—spazio concreto negativo, assenza di una presenza e presenza di un’assenza, ma anche mancanza di una fondazione, anarchia—concettualmente quanto concretamente. 

Il superamento degli insediamenti abusivi sviluppato attraverso un progetto spaziale—trasferire in maniera coatta migliaia di persone da un ambito “informale” ad un contesto costruito, isolato e in rovina, appunto, come le ex-borgate fasciste; così come in Bosnia vengono trasferite in Temporary Reception Centres—presuppone che il suo presupposto politico-economico vada bene, lasciando inalterato i suoi presupposti e il suo funzionamento strutturale. La “terra di nessuno” della Pista può essere trasferita in un altro spazio vuoto e appropriabile. 

L’obiettivo di superare gli insediamenti informali come contrasto allo sfruttamento si palesa quindi come legittimazione delle logiche di accumulazione capitalistica che determinano lo sfruttamento stesso. Il superamento cambia la forma ad una logica che rimane inalterata.

I Piani Urbani Integrati tentano di dare soluzione spaziale ad un effetto, anziché metterne in dubbio le cause strutturali, cioè che il comparto agro-industriale nei modi di produzione di oggi non possono fare a meno dello sfruttamento e della figura del migrante operaio razzializzato.

Partire dal vuoto, dall’assenza di un comando originario e di un fine del progetto, architettonico e politico, vuol dire mettere in dubbio il concetto stesso di superamento; il potere soluzionista del professionalismo tecnico quanto la teleologia del progresso. 

Non si tratta allora di interrogare l’urgenza di una operazione che “superi”, cancelli, questo tipo di insediamento, quanto le condizioni per cui la Pista effettivamente venga a formarsi. Ed è questo che i Piani Urbani Integrati del PNRR non fanno.
1. Con “appropriazione violenta” traduco l’inglese “weaponization”, cioè il diventare arma, l’utilizzare come arma qualcosa che è appunto appropriato in modo forzoso. Non è una militarizzazione, ma una trasformazione o appropriazione intenzionale—frutto di un progetto—che rende pericoloso e ostile lo spazio stesso nel contesto di tale progetto, e lo fa non necessariamente attraverso tecnologie strategico-militari, ma anche solo a partire dalle condizioni geo-morfologiche, architettoniche ed urbane, o ambientali stesse.



Author: Richard Lee Peragine

Period: June 2024

Keywords: Superamento; Bosnia; Vuoto; Progetto; Transizione
Place: Pista di Borgo Mezzanone; Provincia di Foggia; Una-Sana Canton, Bosnia

Project:
PhD dissertation, Politecnico di Torino: “The Project of Emptiness. Sovereignty, the weaponization of space and architecture in the Bosnian krajina” (2024) ; Camp Form(s)




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