Insediamenti “informali” in Capitanata

04/08/2025

ITALIAN

Article: PNRR

Edoardo Ciuffreda

Foto: Sara Tonani




Fin dalla (lenta) rivoluzione neolitica, ossia il progressivo passaggio dalla prevalenza di modalità di sussistenza basate su caccia e raccolta a quelle fondate sull’agricoltura, in Capitanata sono esistiti insediamenti fondamentali per le economie territoriali. Eppure, recenti insediamenti sono stati istituzionalmente nominati mediante il carattere della cosiddetta “informalità”, probabilmente per la difficoltà di vedere in essi la strutturazione di una ‘forma’ riconosciuta come “normale” e “regolare”. Prima di analizzare i motivi di una simile difficoltà può essere utile ricordare alcune dinamiche che hanno storicamente segnato la vita sociale di questo territorio, per poi passare alla critica dei discorsi che attualmente presiedono alla nominazione istituzionale delle - e quindi a un preciso potere sulle - realtà sociali ivi esistenti.

Per la pubblica (cioè non privatizzabile), infinita e necessaria attività di restituire memorie storiche collettive alle loro artefici - le culture - è importante rievocare “fatti sociali” ritenuti costitutivi di queste ultime. Una tale attività è da sempre esposta al rischio tipico di ogni selezione, ossia la preferenza, che determina esclusioni e inclusioni il cui infelice risultato è spesso quello di un’egemonia sui discorsi mediante cui una collettività umana ricorda la propria storia, e quindi conosce se stessa. Un possibile riparo da un simile rischio potrebbe essere quello di saggiare diverse prospettive esistenti sulle stesse materie di studio, ossia parlare con persone e leggere libri le cui narrazioni siano differenti tra loro, per provare a tracciare complessi panorami di memorie nella costante consapevolezza dell’impossibilità di giungere a una visione unica, onnicomprensiva e assolutamente oggettiva (una tale visione avrebbe infatti caratteri quasi totalitari, piuttosto che totalizzanti).

Tra le varie pubblicazioni sulla storia locale della Daunia (poi chiamata Capitanata), ho trovato in un negozio dell’usato che affaccia sul ‘Corso vecchio’ di Foggia un’opera piacevole anche perché - attraverso un’autorialità plurale - riesce a coniugare la facilità di lettura con la complessità dei temi trattati. Nell’introduzione a tale Storia della Puglia curata da Giosuè Musca (1979), composta da due volumi che cercano di abbracciare alcune vicende caratterizzanti tale regione geografica fin dall’antichità, ciò che innanzitutto contribuisce a definire il suo territorio è l’essere “crocevia di genti”. 

Nel primo capitolo del primo volume - scritto da Domenico Novembre e intitolato Vicende del popolamento e trasformazione del paesaggio - si dispiega una scorrevole sintesi della panoramica storica analizzata poi più approfonditamente nel corso del libro: essendo il popolamento umano della Puglia durante il Paleolitico praticamente impercettibile, anche per abitudini nomadi che hanno lasciato meno tracce di sé nel paesaggio rispetto alle forme abitative stanziali, è dal popolamento neolitico che alcune culture umane - a partire da un’espansione demografica derivata da migrazioni transmarine - hanno iniziato ad apportare trasformazioni più profonde nel “paesaggio primitivo” che, mediante disboscamenti, vide delinearsi gli spazi colturali che ne definirono un ‘aspetto’ agrario con specifici caratteri socio-economici e insediativi; insediamenti funzionali alle aree coltivate da cui erano circondati sorsero infatti nel Salento, nella Premurgia costiera e nel Tavoliere. Occorre aver presente che durante tale fase dell’economia locale l’agricoltura rispettava il riposo delle terre, richiesto dall’esaurimento dei suoli, motivo per cui le persone che di essa vivevano si muovevano periodicamente in base alle mutevoli condizioni ambientali. Perciò, gli insediamenti di tale periodo furono costruiti e abitati da persone che erano a intervalli sia sedentarie, sia in movimento, rendendo la stessa opposizione tra sedentarietà e mobilità concettualmente inadatta per descrivere il rapporto tra l’abitare e l’uso delle risorse. 

Di tali primi insediamenti aumentò il numero e la densità demografica nell’età di diffusione dell’uso dei metalli, in cui l’economia agricola sperimentò un potenziamento dato dalla disponibilità innovativa di attrezzi di simili materiali, e durante cui la Puglia fu attraversata da relazioni tra la civiltà micenea e quella appenninica. Fonti storiografiche del V secolo a.C. continuano poi a confermare, in epoca preromana, il popolamento della Daunia, oltre che della Peucezia e della Messapia1

Fra le concause del processo di romanizzazione del tessuto sociale e territoriale dauno vi fu la volontà politica dei ceti dominanti locali di contrastare “l’elemento osco-sabellico, organizzato in un ordinamento cantonale e federale più ugualitario” rispetto alla “società bellico-cavalleresca e agro-pastorale, fortemente gerarchizzata e politicamente conservatrice” della Daunia. Tale elemento, connesso a un sempre maggiore processo di sannitizzazione, stava guadagnando la solidale alleanza delle “popolazioni rurali subalterne, di quella moltitudo in agris sottomessa alla classe dominante daunia”2. Il “ricorso a Roma” da parte dei gruppi aristocratici dauni rappresentò così “l’estremo tentativo di risolvere a proprio vantaggio questo conflitto di classe e di conservare il potere”3. La Tabula Peutingeriana documenta una mappatura della Puglia romana che assume, “nel paesaggio agrario e nei rispettivi insediamenti, l’ordinamento spaziale determinato dalla centuriazione”, ossia “un sistema di appoderamento costituito da vie e limiti che si intersecano ad angolo retto”4 che forma tanti appezzamenti quadrati. La leggibilità, percorribilità e quindi governabilità di tale struttura territoriale - seppure limitata alle colonie (spesso non fondate ex novo5) - erano caratteristiche funzionali alla conquista romana nel quadro generale delle sue politiche economiche e militari. Oltre che sul disegno di tale rete viaria, il popolamento della Puglia romana (compresa nella provincia nominata Apulia et Calabria) - in particolare dall’età tardoantica - si iniziò a muovere intorno ai “rapporti fra habitat accentrato e habitat sparso (le villae popolate da mano d’opera servile)”6, ossia intorno a rapporti di produzione resi possibili dalla gerarchizzazione sociale (mutata ma mai finita) fra proprietari della terra e persone che vi lavorano. Per non scivolare in semplicistiche analogie occorre però complessificare le comparazioni storiche, precisando che nelle villae romane era più difficile di oggi rintracciare una divisione tanto netta fra proprietà terriera e spazi delle persone che vi lavoravano. Va quindi esplicitato, da un lato, che le strutture insediative a cui ci si riferisce devono essere messe “in connessione con un tipo di paesaggio rurale articolato, non esauribile esclusivamente nella categoria del grande latifondo”7 e, dall’altro, che simili habitat attraversarono nel corso del tempo diverse trasformazioni attinenti a forme organizzative sia delle proprietà, sia delle architetture produttive. Esse “si collegano nel contado a una pluralità di fundi autonomi, decentrano la produzione, convivono e cooperano con altre dominanze, che sono il villaggio, la fattoria contadina, il lavoro colonico, la manodopera stagionale, lo schiavo ‘integrato’”8, oltre al fatto che esistevano contemporaneamente diversi tipi di villae romane, le quali differivano anche per le variabili distanze fra esse e le proprietà padronali9. A tale ultimo riguardo è significativo il fatto che “il modello della villa tardoantica appare funzionalmente complementare con quello del vicus10. I vici erano villaggi rurali che costituirono “nell’Apulia tardoantica un’entità di primaria importanza del paesaggio agrario”, in quanto forme insediative che rispondevano tra le altre cose all’organizzazione produttiva, specie cerealicola: 


“I vici risultano agglomerati secondari con la funzione precipua di luogo d’incontro e di mercato nel contesto della vita agricola, di sosta lungo le arterie viarie [...], ed anche luogo di difesa [...] Anche la cura delle autorità governative dimostra una valorizzazione delle strutture rurali e degli insediamenti paganico-vicani, se non altro perché considerati elemento essenziale del drenaggio fiscale [...]. Alcuni villaggi si dotarono di una chiesa, altri divennero addirittura sedi episcopali rurali, in altri si colgono le tracce di interventi evergetici e dell’acquisizione di un aspetto, per così dire, ‘pseudourbano’”11.


Può essere utile specificare che la ‘pre’ o ‘pseudo-urbanità’ a cui fa riferimento Volpe per l’età tardoantica riguarda tali villaggi rurali chiamati vici, i quali acquisirono una particolare “fisionomia urbana” più tardi rispetto alle forme insediative più strutturate (cosiddette civitates), che invece si dotarono di caratteri urbani (“strutture pubbliche, civili e religiose”12) già dal primo periodo della romanizzazione (tra le guerre sannitiche e la guerra annibalica). Il carattere più propriamente urbano delle civitate è connesso in questo contesto alla loro crescente egemonia politico-economica, che le rendeva “capaci di esercitare il controllo di ampi comparti territoriali”13:

“La presenza romana consente quindi ai centri principali, Canusium, Arpi, Tiati, Salapia (o più precisamente alle aristocrazie egemoni in queste città), di incrementare lo sviluppo urbano, di rafforzare il controllo di vasti territori e di consolidare l’organizzazione economico-agraria che è alla base della propria preminenza; al tempo stesso non ostacola lo sviluppo di quei vici posti nelle aree periferiche dei territori controllati dalle civitates maggiori e blocca quello di altri vici, dislocati nelle aree più vicine o situati in posizioni strategiche (guadi fluviali, approdi portuali, colline dominanti importanti vallate), il cui controllo era irrinunciabile, sotto il profilo economico e militare, per le civitates egemoni”14.


Dalle ultime osservazioni si può comprendere come i processi di emersione o repressione dei centri abitati della regione considerata, piuttosto che determinati da spontanee espressioni delle realtà sociali che li costituivano, furono fortemente vincolati a conflitti di natura politico-economica da cui derivarono forme di egemonia territoriale militarmente imposta.

Le forme di umanizzazione del paesaggio tipiche della romanizzazione rimarranno in certa misura inalterate fino all’età medievale, iniziata la quale, a causa della frequenza di scorrerie e razzie e quindi per motivi di difesa da esse, molte zone pianeggianti furono abbandonate per costruire nuovi centri abitati su rilievi montuosi e in grotte di più difficile accesso. Queste ultime dinamiche, nonostante la persistenza della cerealicoltura nella produzione agricola pugliese, comportarono un aumento degli spazi incolti, delle terre nuovamente occupate dalla vegetazione spontanea e dal pascolo, dalla pastorizia transumante e dall’allevamento suino ed ovino. In tale epoca comunque (ri)sorsero insediamenti che si creavano sia grazie ai costanti flussi migratori, sia a causa di esenzioni fiscali disposte affinché si abitassero aree da mettere a coltura. Le modalità di popolamento e di definizione dello spazio agricolo, così come gli “indirizzi colturali” di questo periodo, lasciarono evidenti segni nel paesaggio in particolare per le dominazioni bizantine, longobarde e successivamente normanne. Durante il periodo altomedievale aumentarono le coltivazioni entro le mura urbane, e le abitazioni cittadine assunsero forme, strutture e funzioni delle abitazioni di campagna, secondo una compenetrazione fra dimensione rurale e urbana che proseguì a fasi alterne fino all’attuale realtà di città come Foggia e Cerignola, che sono state definite agrotowns proprio in quanto l’economia urbana è in esse in gran parte inscindibile dalla produttività agricola. La crescita di quest’ultima, tra IX e XI secolo, portò alla ripresa di insediamenti già esistenti e alla nascita di nuovi, tra cui vi era la stessa Foggia. 

In Puglia il dominio normanno impresse alla società pugliese connotati feudali che si tradussero in una nuova aristocrazia fondiaria franco-normanna (oltre a quelle di origine greco-latina e longobarda), dotata di ampi poteri giuridici e militari. Dopo tale dominio, furono quelli svevi, angioini, aragonesi e austriaci a contendersi le terre pugliesi e le loro risorse fino all’inizio del regno borbonico (1734), che trovò poi la sua fine con l’avvio, nel 1861, del processo di unificazione amministrativa del territorio italiano, che rimase sotto il regno dei Savoia fino alla proclamazione della repubblica del 1946.


[Scusate il rapido e momentaneo salto temporale in avanti, torniamo un po’ indietro]:


Verso metà del XV secolo, entro un contesto di profonda crisi demografica iniziata nel secolo precedente, Alfonso I d’Aragona ridusse le terre seminative per destinarle al pascolo, e istituì la “Dogana della mena delle pecore” per dare una “veste legale” a una trasformazione in atto già da tempo. Infatti, tra il XIV e il XV secolo scompaiono quasi la metà dei “villaggi rurali del Tavoliere”, anche perché “la Dogana si tradusse nell’espropriazione di gran parte dei contadini della Capitanata, trasformandone le terre in pascoli”. Comunque, nel resto della regione persistevano “insediamenti rurali” e “aggregazioni agro-urbane”15 che contribuivano allo sviluppo della produzione, in quanto zone di residenza temporanea di braccianti provenienti anche da altre regioni. Come quella maremmana, abruzzese e romana, anche la Dogana pugliese nasceva quindi per specifici interessi politico-economici, “come risposta istituzionale intesa a governare la transumanza e ad offrire incentivi e protezione ai pastori, al fine di spostare i flussi migratori stagionali [...], ma anche per attirare le limitate risorse disponibili”16. La “Regia Dogana di Foggia” istituì “lo strumento fondamentale con cui si regola in Puglia un’economia di tipo essenzialmente feudale, in base alla quale alla promozione di una consistente attività armentizia fa riscontro un uso latifondistico della terra ad opera o di alcuni grandi enti ecclesiastici o della locale nobiltà feudale”, determinando così “una precisa definizione del paesaggio agrario della Capitanata”17.  Negli agglomerati urbani che ancora insistevano nel Tavoliere, la commercializzazione dei prodotti agricoli su nuovi mercati attrasse migrazioni che permisero (ancora una volta) alle città di espandersi con nuovi quartieri e nuove borgate. Non mancarono casi di popolamento coatto per promuovere scambi commerciali mediante grandi fiere che chiamavano mercanti da diverse parti d’Europa, come accadde in famosi centri, quali Ordona, Lucera, Manfredonia e Altamura18.

In Capitanata durante il XVI secolo la popolazione è concentrata in radi centri rurali più popolosi - la cui densità demografica va aumentando insieme alla congiuntura economica positiva, specie per la larga domanda di cereali dal mercato napoletano e in generale spagnolo -, e più piccoli insediamenti montano-pastorali del Gargano a est e del Subappennino a ovest. La pianura del Tavoliere è “la vera Puglia agricola”, e insieme alla Sicilia è considerata il granaio del dominio spagnolo nel Mediterraneo. Occorre ricordare che l’espansione economica del Viceregno napoletano (di cui fa parte la Capitanata) in tale periodo è connessa anche all’“alleanza tra lo Stato (impersonato o dalla figura del viceré o dall’istituto regio della Dogana) e la grande feudalità”, motivo per cui tale espansione è “tutta interna agli interstizi di una struttura che rimane fondamentalmente feudale”19


[Insomma, forse non è difficile trovare punti di contatto tra questa parte di storia moderna e successive dinamiche economico-produttive territoriali, come ad esempio gli attuali rapporti fra lo Stato italiano e la Grande Distribuzione Organizzata].


I secoli XVI e XVII videro nel Tavoliere insediamenti distanti l’uno dall’altro, e circondati da estese coltivazioni. A cavallo fra tali secoli i Gesuiti acquistarono gli estesi “feudi rustici” di Stornara, Stornarella, Orta e Ordona, per “assolvere un ruolo importante di imprenditori agricoli in Capitanata per tutto il XVII e il XVIII secolo, fino a quando la loro espulsione dal Regno [borbonico] nel 1767 non avvierà in quelle zone i primi fallimentari esperimenti di censuazione ‘democratica’ delle terre fra i piccoli e medi produttori”20. Il fatto che chi lavorasse le terre della Daunia fosse in qualche modo spesso nomade, in movimento o migrante che dir si voglia (e quindi senza titoli di proprietà sulle terre coltivate), è confermato dal fatto che l’epidemia di peste del 1656 risultò relativamente poco rovinosa “nella Capitanata, dove la produzione avvenne ad opera non della popolazione locale, ma, in massima parte, di manodopera fatta venire da altre regioni”21.

Il Settecento è il cosiddetto “secolo del grano” per tutta la Puglia, ma è in particolare la Capitanata ad assistere allo stanziamento di grandi proprietari di masserie e mercanti di grano, con conseguente diffusione e consolidamento del “sistema di organizzazione della media e grande azienda cerealicolo-pastorale pugliese in masserie, centri di attrazione di grandi masse di immigrati stagionali”22 che raggiungevano il Tavoliere dauno da diverse regioni circostanti. La “Puglia piana” è in tale secolo ancor più “terra di immigrazione stagionale e permanente, un immenso latifondo che produce per mercati lontani lana, in primo luogo, e grano”23. A fine secolo la descrizione del territorio rimane simile al secolo precedente, in quanto caratterizzato da rari centri abitati sparsi che costellano grandi aree colturali “dominate dai seminativi”, ma cominciano a emergere in maniera più evidente nuove figure di potere economico-politico, i cosiddetti “galantuomini”, ovvero la borghesia agraria che lentamente infonderà alla produzione agricola un’impronta dalle logiche meno feudali e più spiccatamente capitalistiche, e che proprio dalla proprietà della terra e dal commercio delle derrate agricole farà derivare la propria autorità nella vita politico-amministrativa dei comuni pugliesi. Può essere opportuno ricordare che il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico è stato qui come altrove tutt’altro che netto, in Capitanata infatti “ancora alla fine del secolo, circa i ¾ della popolazione viveva in città, ‘terre’ e ‘casali’ feudali”24. Anche in questo secolo la ‘crescita’ economica in agricoltura non significò affatto un miglioramento delle condizioni materiali di esistenza delle persone che le terre le lavoravano. Difatti, all’ampliamento delle terre sotto il controllo dei “galantuomini” - spesso derivante da fitti di proprietà ecclesiastiche - corrispose “la parallela riduzione delle terre comuni e degli usi civici esercitati su di esse”25, causando il forte e pericoloso restringimento dei margini di sussistenza per le realtà contadine più impoverite. Specialmente da metà secolo, nel rapporto salari-prezzi iniziò a farsi più evidente una “divaricazione crescente”: “Mentre i salari nominali, soprattutto per i lavoratori agricoli meno qualificati e per la manodopera femminile e minorile cui si fece sempre più frequentemente ricorso, rimasero sostanzialmente fermi [...], il costo della vita invece aumentò progressivamente”26. Potrebbe sembrare superfluo osservare che da tale “lievitazione dei prezzi” ne furono più danneggiate le piccole proprietà e gli strati sociali meno abbienti, la cui interna competizione - indotta dalle scarne opportunità economiche e incrementata dall’aumento della popolazione - non poté che giovare ai percettori di rendita fondiaria che cedevano in affitto o a terraggio le loro terre (evitando i rischi di condurre direttamente la produzione agricola, ma traendone comunque profitti), secondo dinamiche che proseguirono nel secolo seguente. Sul finire del XVIII secolo si registra quindi sul territorio pugliese “una riduzione in valori assoluti della superficie complessivamente coperta dalla piccola proprietà [... e] una crescente proletarizzazione delle masse contadine”. Le numerose usurpazioni - connesse ai processi di privatizzazione delle terre comuni e di riduzione degli usi civici (1792-1793) - “divennero motivo di tensioni sociali acutissime che spesso esplosero in sollevazioni popolari od assalti alle proprietà contestate”, gettando definitivamente le basi per il “violento conflitto di classe” dei periodi successivi27. Queste ultime affermazioni non contraddicono il fatto che per il Mezzogiorno sia esistito comunque “almeno in valori assoluti - un ulteriore avanzamento della grande proprietà anche a favore della piccola proprietà contadina”28. Infatti, a tali osservazioni vanno integrate quelle di Massullo che, tese a “smussare il troppo dicotomico quadro offerto dalla letteratura riformistica settecentesca della società meridionale”29 - basata su un’impostazione teorica il cui manicheismo contrappone schematicamente grande e piccola proprietà -, individuano nel censo enfiteutico, nelle colonie perpetue ad meliorandum, nel reinvestimento in terra degli utili ricavati dal commercio del grano prodotto e del bestiame allevato sui fondi presi in affitto, nonché in forme di contratto agrario anche diverse o in fonti di reddito extragricole, i mezzi per una “trasformazione della massa di braccianti senza terra a piccoli coltivatori proprietari”30, e dopo la quale, pur essendo il “modello di rapporto tra struttura agricola e struttura sociale” nel Regno di Napoli “quello tra seminativo arborato e piccola e media proprietà in buona parte contadina da un lato e tra grano e grande proprietà feudale e borghese dall’altro”31, sarebbe opportuno “guardare a quegli anni come a un periodo di differenziazione sociale, anche forte, prodottasi nella compagine dei piccoli coltivatori: di questi molti si videro ridotti a salariati e piccoli coloni, ma altri godettero di una mobilità ascensionale verso la proprietà o il suo ampliamento”32. Specificando che il piccolo possesso fondiario era diffuso, “in particolare tra i bracciali, anche in Terra di Bari, Capitanata, Terra d’Otranto”33, Massullo evidenzia come i valori di estensione simili di “questo tipo di proprietà, celassero in realtà situazioni patrimoniali estremamente diversificate, legate, più che alle dimensioni del possesso, alla sua struttura tecnico-agronomica”, a testimonianza, “oltreché della pluralità dei modi di accesso alle risorse da parte della famiglia contadina, certamente anche di una produzione non solo destinata all’autoconsumo, ma anche indirizzata al mercato”34. Comunque, lo stesso autore precisa che a metà del XVIII secolo la presenza della piccola e media proprietà contadina - cospicuamente diffusa su gran parte della dorsale alpina, prealpina, appenninica e subappenninica della penisola - è per le terre (come la Capitanata) “sotto i 500 metri di altitudine [...] invece modesta: la conquista della pianura sarà avventura successiva, quasi del tutto novecentesca”35. Un’osservazione confermata da Mercurio, che per lo stesso periodo riporta dati secondo cui nel Tavoliere pugliese - una pianura di circa mezzo milione di ettari - la proprietà pubblica “si aggirava attorno ai 300 mila ettari”, seguita dalle rilevanti dimensioni di quelle feudali ed ecclesiastiche, mentre la piccola proprietà “era praticamente assente”36. Pur essendo quindi il generale contesto agricolo-produttivo della penisola tra XVI e XVIII secolo segnato da una ripresa della piccola proprietà contadina (dopo un periodo di declino di quest’ultima tra XIII e XIV secolo)37, dalla seconda metà del Settecento “la forte offensiva borghese negli acquisti di terra sembra essersi rivolta, oltreché alle terre ecclesiastiche e aristocratiche, anche a quelle contadine, intaccandone sensibilmente la consistenza, attraverso il facile varco aperto dalla crescente pressione fiscale e della progressiva riduzione dei diritti comunali nelle economia familiari dei ceti legati alla terra”38

Il secolo XIX continuò nel solco del precedente; basti considerare che, se la piccola proprietà contadina procedette nel farsi strada con quotizzazioni demaniali e contratti a miglioria (in relazione a “una certa partecipazione contadina a quelle usurpazioni i cui protagonisti principali furono i settori borghesi”39), tra il 1806 e il 1813 oltre 100.000 ettari di terre della Dogana “furono dati a censo o definitivamente venduti a poche centinaia di esponenti dell’aristocrazia feudale, del patriziato locale e della grossa borghesia agraria di Foggia, Cerignola, Canosa, Minervino, Barletta, San Severo, Andria, Ascoli Satriano, Lucera ed altri centri”40. I moti di ribellione dell’Ottocento “furono, in Puglia come nel resto del Mezzogiorno, soprattutto le fasi culminanti di un lungo processo di trasformazione delle strutture produttive, dei rapporti sociali e degli equilibri politici avviato [...] fin dalla metà del Settecento e che si concluse solo dopo l’Unità [del regno d’Italia]”, cioè la già accennata “fase storica in cui si affermò in modo definitivo il potere e la ricchezza dei ‘galantuomini’”41, con il conseguente aumento della concentrazione, specie nel Tavoliere foggiano e nella Murgia barese e tarantina, di braccianti senza terra che vendevano il loro lavoro per misere paghe. Nelle campagne si consolidarono mutamenti in corso da decenni: “La censuazione delle terre del Tavoliere, le divisioni in massa dei demani e l’abolizione degli usi civici sulle terre già feudali, l’affermazione del diritto di proprietà individuale e formalmente illimitato [...]. Questi ed altri provvedimenti contribuirono potentemente a rafforzare, in modo diretto o indiretto, il potere e la ricchezza del nuovo blocco sociale e politico dominante”. Scoppiarono perciò ancora rivolte contadine e si diffuse il brigantaggio “in Capitanata e nelle zone interne di Terra di Bari e di Terra d’Otranto”42. Gli interconnessi processi di trasformazione dei rapporti sociali di produzione in senso capitalistico, di commercializzazione dei prodotti agricoli e di allargamento del mercato regionale, furono alla base dell’incremento demografico nel “medio e basso Tavoliere dove Foggia, Cerignola, Trinitapoli, le colonie ex gesuitiche della zona di Orta ed infine l’insediamento di San Ferdinando di Puglia (eretto in comune autonomo nel 1848) videro aumentare complessivamente del 65% la loro popolazione tra la caduta dei Napoleonidi e l’Unità, contro una media provinciale del 40% ed il ben più modesto 21% dell’alto Tavoliere, da Chieuti ed Apricena a San Severo e Torremaggiore”43. Fu inoltre in tale secolo che si procedette in maniera massiva al processo di conversione di superfici a pascolo naturale, bosco e incolto in centinaia di migliaia di ettari di seminativo, oliveti e vigneti: “La legge del 1865 sul Tavoliere delle Puglie segna un momento emblematico”; mosso dall’aumento del prezzo del grano e dall’incremento demografico, tale processo di “allargamento della coltura granaria su molti dei terreni in precedenza lasciati al pascolo [...] allenta in maniera decisiva i legami secolari intrecciati tra la pianura della Capitanata e la montagna appenninica”, oltre a causare “la dissoluzione dell’ecosistema modellato sulla transumanza” e i relativi gravi problemi di dissesto idrogeologico, erosione dei pascoli permanenti di montagna e frapposizione di ostacoli di terreni colti sui grandi percorsi dell’allevamento brado44. Le politiche governative dell’epoca attuarono quotizzazioni demaniali - suddivisioni e redistribuzioni delle proprietà terriere - il cui “privatismo imperante [...] sancisce (1865) il diritto-obbligo degli enfiteuti della vastissima area demaniale del Tavoliere delle Puglie all’acquisizione della terra in piena proprietà mediante il riscatto dei canoni entro quindici anni”45; politiche cui seguirono problemi già conosciuti: “Si ripete così quanto era avvenuto nell’età della Restaurazione, quando la ‘classe’ dei contadini, ‘mancando di mezzi a migliorare le terre da essa avute, e gravata da debiti e pesanti usure, divenuta più povera di prima, fu obbligata a capo di dieci anni a venderle, e così ricaddero in poche mani’. Nel Tavoliere, le modalità del processo di affrancamento favoriscono il numero ridotto di grandi censuari che già controllava quasi l’80% della terra”46.

Così, tra XIX e XX secolo proseguirono i paralleli processi di concentrazione fondiaria tra pochi proprietari terrieri e di bracciantizzazione di sempre più ampi strati di popolazione. Tali processi vanno però inseriti in più ampie complessità produttive che permettono di comprendere l’”importanza del ruolo realmente svolto dalla piccola proprietà contadina nell’economia agraria della Penisola e nel suo più complessivo processo di sviluppo economico”47


“Processo in cui [...] lo sviluppo del capitalismo non è avvenuto per nette semplificazioni del quadro sociale e chiare separazioni dei settori produttivi, quanto piuttosto con un’ulteriore complicanza della promiscuità professionale di individui e gruppi e dell’integrazione di agricoltura, industria e commercio. [...] La promiscuità professionale riguardava tutti gli agricoltori quasi sempre allo stesso tempo mezzadri, affittuari, piccoli proprietari; gli stessi bracciali erano in realtà figure ben diverse dall’idealtipico bracciante salariato senza terra, essendo spesso, come abbiamo visto, anch’essi piccoli proprietari, con livelli di reddito molto diversificati [...]. Un quadro che manterrà la sua funzione almeno fino a quando le opportunità offerte dall’emigrazione definitiva transoceanica e poi quelle create da una grande industria, ormai matura e in grado di stabilizzare le proprie forze di lavoro in ambito urbano, non determineranno lo spopolamento e il degrado economico e ambientale della montagna”48.


Infatti, se per il Settentrione italiano lo sviluppo capitalistico (specie industriale) si è fondato sul rapporto agricoltura-industria, ossia sulla forza-lavoro di persone in movimento provenienti anche da propri piccoli fondi agricoli, - dimostrando come medesimi soggetti, allora come oggi, sostenessero le economie territoriali spaziando in un'eterogeneità di impieghi tra settori produttivi diversi - anche per il Mezzogiorno lo sviluppo economico del capitalismo (specie agrario) dipese spesso dal lavoro di persone migranti:


“La stessa struttura produttiva del grande latifondo di pianura [...] non avrebbe potuto esistere senza poter contare sulla stretta relazione con la montagna. E questo non solo per il rapporto cerealicoltura estensiva-pascolo transumante, ma anche [...] per la possibilità di utilizzare la manodopera stagionale costituita proprio da quei proprietari particellari delle colline e delle montagne, sottoccupati nelle loro zone, bisognosi quindi di integrare il loro bilancio familiare, e per i quali, d’altra parte, la coltivazione estensiva delle pianure non poteva garantire una retribuzione salariale continuativa”49.


Così come per la Maremma toscana e l’Agro romano, anche il Tavoliere dauno era un’area poco abitata stabilmente, e se a ciò si aggiunge il fatto che le aziende agrarie locali si fondavano su un uso estensivo del territorio, si può comprendere la forte necessità produttiva di ricorrere alla forza-lavoro migrante:


“In ancien régime come per gran parte del XIX secolo il lavoro manuale doveva rimanere il principale mezzo di produzione, per cui le forme del lavoro migrante assumevano una estrema rilevanza nella produzione agricola [...]. La masseria di campo pugliese non era la dimora stabile di una o più famiglie contadine, ma il centro di un organismo aziendale basato sul lavoro di salariati (obbligati ad anno, ‘mesaroli’ o giornalieri) che hanno nel centro urbano (che è la sede del mercato del lavoro) la loro residenza principale”50.


Gli alloggi delle persone migranti - allora stimate già intorno alle 100 mila unità - che si muovevano fra le tre suddette aree avevano funzioni simili, ma “la cafoneria pugliese [...] era già una innovazione nei confronti della realtà romana e grossetana dove il ricovero dei lavoratori si riduceva nel migliore dei casi ad una capanna di paglia. I flussi migranti, dunque, si indirizzavano verso queste strutture che assumevano tutti i caratteri di avamposti produttivi nella campagna disabitata”51. Il vasto “mercato foggiano” era tenuto in piedi dal lavoro migrante di persone provenienti dagli Appennini: “Dagli Abruzzi, dal Molise, dall’Irpinia e dalla Basilicata scendevano verso la pianura pugliese. Ma soprattutto a partire dal XIX secolo questi flussi migranti avrebbero interessato anche le aree costiere della Puglia. I lavoratori del barese e del leccese, i cosiddetti marinesi, sistematicamente avrebbero battuto le terre del Tavoliere in cerca di lavoro”52. Poi, con “la dilatazione delle aree a coltura che avvenne in forme sempre più prepotenti nel XIX secolo”, si modificarono tali movimenti di persone che iniziarono a interessare meno le aree montane e più le pianure. Così fu l’evoluzione pugliese, “dove sempre più spesso le contrattazioni erano fatte nelle piazze delle grosse agrotown del Tavoliere”53, e in cui le aziende cerealicole diventavano punti “di riferimento, di confronto e di integrazione di lavoratori migranti provenienti da aree diverse”54: “Muratori, commercianti, artigiani si uniscono alle carovane di contadini e vanno ad offrire braccia, servizi e abilità a polverosi borghi che si espandono e acquistano funzioni urbane”55 - “Ad Ortanova nel ventennio 1881-1901 circa ¾ dell’incremento di popolazione deriva dall’immigrazione, a Cerignola e Trinitapoli oltre il 50 per cento, a San Severo il 23, a Foggia il 12”56, dove “i terrazzani erano appunto quegli immigrati che, a partire dal Settecento, ma in modo più consistente nel secolo successivo, avrebbero deciso di fermarsi ai margini della città. Non più pastori, ma non ancora contadini, vivevano praticamente di raccolta e di caccia sugli immensi pascoli del Tavoliere, costituendo una forte comunità locale”57. L’immigrazione nel Tavoliere “si innesta su flussi di immigrazioni stagionali, certamente di lunga durata, ma che, nella seconda metà dell’Ottocento registrano un sensibile aumento, per l’accresciuta domanda di lavoro provocata dai dissodamenti e dall’intensivazione colturale in atto, prima che la grande diffusione delle macchine nella cerealicoltura non ne dirotti i flussi oltre oceano”58.

Se da una parte l’inizio del Novecento pugliese vide l’emigrazione regionale assumere “carattere di esodo massiccio”, con un numero di emigranti nel primo quindicennio di secolo pari al 13,2% del totale nazionale, dall’altra - rispetto a una distribuzione della proprietà a prevalenza latifondistica, specie nel Tavoliere e sull’alta Murgia barese (mentre medio-piccole proprietà erano più presenti nel barese interno e nel Salento) - fu contrassegnato dallo sviluppo del bracciantato agricolo salariato e delle sue organizzazioni politiche e sindacali, e quindi da un aumento di scioperi e lotte bracciantili che “imperversarono soprattutto in Terra di Bari e in Capitanata. L’atteggiamento di Giolitti verso queste lotte fu tutt’altro che liberale: la repressione continuò ad essere violenta e la Puglia divenne la terra degli eccidi cronici”59. In tale periodo gli elementi costitutivi della cerealicoltura pugliese (diffusa soprattutto in Capitanata) “continuano a essere la masseria e il latifondo, attorno a cui ruotano i minuscoli appezzamenti fondiari di contadini precari sempre sull’orlo di una definitiva proletarizzazione”60. Seppure in un contesto nazionale che vide tra 1911 e 1921 “la sensibile diminuzione percentuale dei braccianti, soprattutto giornalieri” - probabilmente collegabile all’ingresso di questi ultimi nella categoria dei “conduttori di terreni propri”61 - tali dinamiche regionali concentrarono, nei grossi centri rurali, “una crescente popolazione contadina espropriata della terra e ridotta a manodopera destinata a raccogliersi quotidianamente ‘in piazza’ per essere assoldata, dopo oculato esame delle idoneità fisiche e delle opinioni politiche, dai caporali dei grandi proprietari e fittavoli di masserie”62. In riferimento al periodo del primo dopoguerra, secondo meccanismi trasformatisi soltanto parzialmente dopo la grande depressione economica di fine anni Venti, la progressiva lotta per l’accesso alla proprietà fondiaria da parte delle piccole realtà contadine fu - coordinando strategie fra metodi combattentisti-socialisti e legalisti - comunque vincolata al fatto che “la necessità, sia pure modesta, di capitali per l’acquisto anche di piccoli fazzoletti di terra impediva agli individui e alle famiglie contadine di qualunque categoria che ne fossero sprovviste di svolgere un qualche ruolo nella corsa all’accaparramento della terra. Solo quelle in grado di realizzare qualche forma di risparmio grazie ad un sia pur parziale rapporto con il mercato, magari solo locale, potevano farlo”63


[Per rendere più giustizia a quanto riportato finora, può giovare ricalcare le specifiche complessità interne al continuum fra il polo del latifondo e quello del bracciantato, due elementi irriducibili a dicotomie. Non soltanto perché, sia da un lato che dall’altro, esistono circostanze socioculturali e possibilità economico-politiche che differenziano tanto gli status simbolici quanto le condizioni materiali delle esperienze soggettive, ma soprattutto perché il complesso rapporto fra questi ‘due’ elementi dipende da un terzo, che se in passato era rappresentato dai mercati internazionali con le loro richieste e pressioni64, oggi è chiamato GDO (Grande Distribuzione Organizzata) e rappresenta la fetta maggiore dei profitti tratti dal settore agroalimentare, fondando squilibri e disuguaglianze di mercato note a numerose ricerche, le quali evidenziano quanto vantaggio abbia il ramo della distribuzione/commercializzazione dei prodotti agricoli rispetto a quelli della trasformazione e soprattutto della produzione65]66


Già prima dell’inizio della dittatura, “il terrorismo dello squadrismo fascista” era combinato nello “schieramento anticontadino” con la “tradizionale intransigenza dell’agrario” e, “come strumento risolutore, [con] l’uso dell’apparato repressivo legale, dello Stato”67. Il regime fascista poi, “una volta attuate le leggi liberticide, soppressi gli altri partiti, [...] una volta distrutte le organizzazioni autonome delle classi popolari”, da un lato cercò di “legare alla terra le eccedenze demografiche” tramite “politica delle bonifiche, colonizzazione delle campagne, battaglia del grano” e definizione dei centri urbani come aree di gestione, commercializzazione e consumo dei prodotti agricoli locali, dall’altro si diresse verso l’autoritaria e verticistica organizzazione di consorzi corporativamente strutturati per “ingabbiare, comprimere e disperdere ogni elemento di antagonismo e di conflittualità che si sprigionasse dal profondo dei rapporti sociali”68. Sulla traduzione di quest’ultima strategia nelle campagne daune, vale la pena riportare per intero una riflessione di Corvaglia: 


“Assai significativa la campagna attraverso cui il regime si fece propagandista di una visione produttivistica, basata su un’espansione della produzione agraria e del tessuto produttivo delle campagne. È noto quanto la prospettiva di una bonifica integrale realizzata attraverso consorzi e l’opera comune di Stato e proprietari, sollecitò l’interesse e l’impegno di una tradizione di intellettuali (meno di contadini), sinceramente convinti di un’opera di restaurazione del mondo e dei valori dell’agricoltura, pur se miticamente aggrappati ad una concezione che faceva della piccola proprietà il perno della svolta rinnovatrice. Si vedeva in questa l’esemplificazione concreta di una più generale concezione di accordo e quasi complementarietà tra capitale e lavoro, sulla base di una integrale utilizzazione delle risorse della terra e dell’eliminazione di quelli che apparivano gli estremi della scala sociale: latifondisti e braccianti. In ogni caso, essi accumulavano, man mano che passavano gli anni, disillusione e disillusione: la legge di bonifica, ideata da Serpieri, una volta che fu abolita la clausola che prevedeva l’esproprio a carico dei proprietari assenteisti e inadempienti alla normativa, divenne ben presto uno strumento inutile e incapace di incidere sulla realtà. Un uomo come Araldo di Crollalanza, della cui fede politica non si poteva minimamente sospettare, confessava nel 1939, in un volume celebrativo del regime in Puglia, che in Capitanata ‘fino ad oggi, in base al vecchio piano, nessuna iniziativa concreta di appoderamento si è avuta da parte dei proprietari, per cui non si può segnare all’attivo della trasformazione che la modesta opera di colonizzazione svolta dal consorzio attorno al villaggio La Serpe [(originario nome di Borgo Mezzanone)], inaugurato dal Duce nel 1934. Ben poca cosa di fronte all’immensità del comprensorio del Tavoliere, vasto più di 450.000 ettari ed all’imponenza del problema sociale della Capitanata’”69.


[Chissà se tale considerazione possa rappresentare uno spunto di riflessione per coloro che oggi, con una simile “visione produttivistica”, pensano alle borgate del foggiano ancora come nuove imitazioni di quella mitica concezione di “restaurazione del mondo e dei valori dell’agricoltura”]


Il fascismo intendeva “urbanizzare le campagne con la creazione di villaggi e borgate rurali. Cosa, del resto, vagheggiata da lungo tempo da certi singolari riformatori pugliesi che, legando i contadini alla terra e allontanandoli dai comuni rurali, credevano di poter smorzare la spinta dei lavoratori, rendendone impossibile l’organizzazione sindacale autonoma”70

Comunque, la resistenza della proprietà contadina non solo non arretrò ma si amplificò, tanto che nel secondo dopoguerra “la piccola proprietà coltivatrice interessava il 40% dell’intera superficie produttiva nazionale appartenente a privati”71, un dato che si attestava al 42,5% nel Meridione, ma la cui caratteristica fondamentale era “piuttosto quella di un miglioramento della qualità agronomica media dei fondi e della loro localizzazione che non quella di un forte incremento quantitativo”72. Dopo la proclamazione della repubblica, specie nel biennio 1949-1950, la Puglia vide svilupparsi “grandi mobilitazioni popolari per il lavoro, gli imponibili di manodopera e la conquista della terra. Durissima d’altra parte fu la resistenza che il fronte degli agrari pugliesi oppose a quelle rivendicazioni popolari; gli stessi poteri dello Stato, coerentemente con la politica dei governi dell’epoca guidati dalla Democrazia Cristiana, esercitarono una vasta azione repressiva. [...] Elevato fu il tributo di sangue pagato dal movimento contadino e bracciantile pugliese in quegli anni nella lotta contro le forze agrarie assenteiste. E un primo, sia pure parziale, successo fu conseguito con la famosa ‘legge stralcio’”, con la quale “furono espropriati, in Puglia, poco più di 116.000 ettari”73, specie nel foggiano. Successivamente, “nuove lotte nelle campagne (basti ricordare quelle del 1969 e del 1971) avrebbero posto al centro delle piattaforme rivendicative obiettivi particolarmente avanzati, come la gestione del collocamento, l’abolizione del mercato delle braccia, il controllo degli investimenti in agricoltura e un nuovo sviluppo del settore [primario] che negli anni precedenti era stato in larga misura sacrificato al decollo industriale”74, il quale in Puglia vide prevalere attività di trasformazione di prodotti agricoli. La “compressione” del supporto pubblico all’agricoltura (fulcro economico del Meridione) a favore dell’industrializzazione (specie del Nord) ha causato il “processo di esclusione del Mezzogiorno dallo sviluppo capitalistico e industriale nazionale, il che ha implicato, di conseguenza, il mantenimento nel Sud” di uno sviluppo economico-politico differente e limitato rispetto a quello del Nord75


“Tale esclusione era la conseguenza più diretta delle scelte della classe dirigente italiana, che rappresentava gli interessi della grande borghesia industriale settentrionale e dei proprietari latifondisti meridionali, interessati ad ostacolare o impedire l’espansione della società meridionale. Infatti, mentre da una parte gli agrari temevano mutamenti che potessero minacciare il loro dominio secolare nelle campagne, la borghesia settentrionale dall’altra poteva in tal modo prelevare dal Sud la manodopera da utilizzare nelle industrie settentrionali e organizzare il Mezzogiorno come ‘mercato protetto’ di vendita e consumo dei propri prodotti industriali. Il Sud, pertanto, cresce in modo dipendente e subalterno rispetto al Nord, fungendo da grosso ‘serbatoio’ di manodopera e da sicuro mercato interno”76.


Dagli anni Cinquanta, “il processo di sostegno all’industrializzazione del Sud [...], lungi dal rispondere alle esigenze di base della società meridionale, rispecchia gli interessi dei gruppi finanziario-monopolistici settentrionali, che usufruendo dei forti incentivi e crediti finanziari stanziati dallo Stato, hanno operato nel Sud insediamenti industriali del ramo cosiddetto ‘pesante’ e ‘di base’, come la siderurgia e la chimica [...]. Nascono, in tal modo le ormai famose ‘cattedrali nel deserto’, e cioè strutture produttive isolate e senza alcun collegamento con il territorio”. Per giunta, all'insufficiente industrializzazione “si accompagna nel Sud il vistoso processo di terziarizzazione dell’economia, cioè il processo di crescita delle attività di servizio come commercio e pubblico impiego, che [...] ha riprodotto la dipendenza e subalternità rispetto alle aree centro-settentrionali”. Tale ruolo di subalternità non poteva che intaccare, nel Mezzogiorno, “la sua struttura agricola, spezzare il suo tessuto sociale contadino e bracciantile, disgregare interi centri e comuni del suo entroterra. Tuttavia, la struttura portante di molte regioni del Sud (come la Puglia) consiste ancora nell’agricoltura”77, che attualmente si regge sul lavoro di migliaia di persone, oggi come ieri, migranti. 

Ciò che è in parte cambiato è che le migrazioni per lavorare nel settore agroalimentare della Capitanata hanno assunto progressivamente dimensioni più internazionali e meno nazionali-interne, ma se superiamo tale “nazionalismo metodologico”78 è più facile riconoscere le profonde continuità storico-sociali che caratterizzano, in questo come nei passati secoli, gran parte delle pratiche economico-produttive del foggiano. Assumendo una tale ‘prospettiva di continuità’, si può comprendere come gli insediamenti cosiddetti informali siano espressione delle più esplicite e strutturate forme di tali pratiche. Tutt’altro che marginali, questi insediamenti sono centrali per la più importante economia territoriale, quella agricola, perché rappresentano i presupposti e il risultato delle logiche che muovono quest’ultima79.














Le abitudini dei corpi - i loro movimenti ripetuti - scavano, pongono e incidono nel reale immagini dei propri mondi relazionali. È così, e non con idee astratte di spazio, che assume forma la fattuale concretezza dei luoghi abitati. L’abitudine dà forma all’abitare. 

Eppure, esistono casi in cui certe astratte idee di spazio si assurgono a creatrici - a propria immagine e somiglianza - di abitudini, snaturando così l’abitudine stessa, la quale non ha senso se non nei propri intrecci relazionali, e che perde perciò il proprio valore al di fuori dei flussi sociali entro cui costituisce i propri significati.

I piani spaziali che certi discorsi “tecnici” vorrebbero realizzare per (le regolarizzate) persone abitanti gli insediamenti della Capitanata cosiddetti “informali” - o meglio, ciò che vorrebbero imporre loro, mediante la previa distruzione delle attuali case -, sono imperniati sull’idea progettuale di asettici e spersonalizzati campi-containers, assolutamente astratti dalle realtà sociali presenti. Là dove già esistono centri abitati scaturiti da rapporti produttivi locali - insediamenti decennali di persone che lavorano nelle economie territoriali - lì tali discorsi non vedono altro che oggetti da “polverizzare” (letteralmente). Invece di contribuire al complesso ed eterogeneo sviluppo delle attuali forme di abitare quei luoghi, si pensa a distruggerle per rimpiazzarle con modelli alloggiativi preimpostati e standardizzati.

La memoria acquisisce senso quando è fatta propria per interpretare il presente, e se qualcosa possiamo imparare dalla memoria sociale di questo territorio, è che esso da secoli non smette di assistere a privatizzanti usurpazioni di proprietà comuni, soprusi verso forme di autodeterminazione popolare, sfruttamenti di terre e delle vite che vi abitano, nonché repressioni delle (numerose) forme di dissenso che qui con tenacia si sono sempre manifestate. Comprendendo tutto ciò, possono ancora sembrare “tecnici” - e non invece chiaramente politici - i piani progettuali tesi al “superamento degli insediamenti” di chi vive e lavora in questo territorio, per giunta in condizioni di privazione di diritti costituzionali e di cittadinanza? Non occorre forse leggere in tale “superamento” un ulteriore elemento di quella impostazione governativa che inferiorizza certi luoghi a partire dalla violenta discriminazione di chi li abita, giudicando certe forme di organizzazione socio-spaziale come oggetti difettosi da sostituire? L’etimologia di “superamento” è non a caso il latino super, che indica ciò che sta sopra: la gerarchizzazione operante mediante tale logica è evidente.

Come si è visto, basta leggere qualche libro di storia locale per comprendere come la Capitanata sia stata, dacché se ne ha memoria, costellata di insediamenti sorti in connessione con le economie (specie agricole) territoriali e sfruttati dalle eterogenee volontà-di-dominio che da essi hanno voluto trarre profitto mediante varie forme di produttivismo. Dopo numerose dominazioni economico-politiche, tra cui si ricordano quelle antico-romane, bizantine, longobarde, saracene, normanne, sveve, angioine, aragonesi, borboniche, risorgimentali-liberali, fasciste e moderniste-neoliberali, ora è un tetro amalgama di caratteristiche delle ultime due ad attanagliare certi immaginari interni al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) tesi a progettare il “superamento” di insediamenti della Capitanata definiti “informali”, “abusivi”, “illegali”. Dovrebbe ormai essere riconosciuto, anche se ancora non abbastanza per rimediarvi, come “abusive” e abusanti siano le istituzioni stato-nazionali nei confronti delle persone migranti, piuttosto che le abitazioni che queste ultime si costruiscono per sopperire alla strutturale assenza del diritto alla casa che quelle stesse istituzioni causano. Anche ”illegalità” è un concetto abusato dall’arsenale retorico stato-nazionale contemporaneo puntato contro le persone migranti, e rispetto a cui esistono numerose ricerche, come quelle di Nicholas De Genova, che evidenziano la produzione legale dell’illegalità, ossia il fatto che l’illegalità non sia una condizione intrinseca ai soggetti e ai luoghi, ma derivi dall’azione di apparati legislativi e burocratico-amministrativi specificamente disposti per etichettare e discriminare istituzionalmente soggettività, al fine di subordinarle entro sistemi di gerarchizzazione sociale che non è difficile definire razzisti. 

Qualche riflessione in più, ora, per il concetto di informalità.

“Informale” è un termine che definisce qualcosa a partire dalla negazione di qualcos’altro: la formalità. Insomma, è un concetto ampiamente vago per il fatto che rimanda a un’idea esterna a sé per essere colto, ma cos’è la “formalità”? Secondo il vocabolario Treccani essa significa la “forma prescritta, o ritenuta opportuna”, mentre un secondo significato, al plurale, è quello de “le forme esteriori, le convenzioni sociali”. Quasi si potrebbe leggere quindi in “formalità” un sinonimo di ‘forme culturali’, essendo queste ultime basate in gran parte su prescrizioni (implicite ed esplicite), performatività (“forme esteriori”) e convenzioni di natura sociale. Ci si potrebbe fermare qui per mostrare come l’attribuzione dell’”informalità” a una certa cosa, al fine di delegittimarla, non è distante dalla logica del “quello non va bene perché è diverso dalla mia cultura”. Ma esistono almeno altri due modi per scardinare la logica che ruota attorno alla dicotomia ‘formale-informale’: in senso sincronico, cioè nell’attuale presente storico, nella contemporaneità, riconoscere che il lavoro e l’abitare informale sorreggono ampiamente diversi  settori economici italiani, tra cui soprattutto l’agroalimentare, ed è un dato dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) il fatto che i tassi di lavoro informale rappresentano circa il 58% dell’occupazione globale nel 2024; in senso diacronico, ossia guardando al susseguirsi temporale delle trasformazioni socio-territoriali nel divenire storico, comprendere come l’antica Daunia, poi Capitanata, sia stata da numerosi secoli base di insediamenti da cui sono derivate le attuali città istituzionalmente riconosciute. Il senso dell’“informalità” mediante cui si definiscono certi insediamenti risiede quindi in nient’altro che un pregiudizio, quello secondo cui in essi ci sia qualcosa di non conforme a una presunta formalità generalizzata che sarebbe esente da irregolarità legali ed etiche; ma se così fosse, non solo le pratiche economico-produttive entro cui esistono tanto le città in cui viviamo quanto quegli insediamenti, ma anche tutta la frutta e la verdura che mangiamo, e quindi anche noi, dovremmo definirci informali.

L’ordine del discorso entro cui si giustifica l’intenzione di eliminare la cosiddetta informalità di certi luoghi, è spesso il medesimo che inquina retoriche politico-mediatiche con la volontà discriminatoria di tacciare come “irregolari” e “illegali” le persone che li abitano. Informalità, illegalità, irregolarità, abusività, etc… sono concetti forti proprio per la loro ampia significabilità e quindi estrema vaghezza; perfetti per semplicistici ordini discorsivi di facili propagande ideologiche. 





Mentre scrivo queste ultime righe, per smontare razionalità sospettose verso certi insediamenti, mi ricordo del più sensato sospetto verso un altro insediamento, a causa dell’assordante, rimbombante e violentemente invadente boato dei motori degli aerei militari che qui in Capitanata è triste e fastidiosa abitudine sentirci volare sulle teste, date le esercitazioni della rischiosamente vicina base aeronautico-militare di Amendola, tra le più grandi d’Europa. Penso all’assurdità di ideologie così socialmente penetranti da riuscire a non far suscitare scalpore per l’esistenza di un tale insediamento militare, impiantato come un atto di colonizzazione imposto e di certo abusivo su un territorio che “ripudia la guerra”. 

Dinnanzi a un concreto e purtroppo attualissimo immaginario di armi, eserciti, guerre e bombardamenti che simili realtà militariste propugnano, può davvero sembrare pericoloso, irregolare e illegale il lavoro per costruire case da parte di chi ha difficoltà a trovarne?





Previous article
Next article





Footnotes

1. Volpe G. 1990, La Daunia nell'età della romanizzazione: paesaggio agrario, produzione, scambi, Edipuglia srl, Bari. 

2. Volpe G. 1990, La Daunia nell'età della romanizzazione: paesaggio agrario, produzione, scambi, Edipuglia srl, Bari, p. 33

3. Ibidem

4. Novembre D. 1979, Vicende del popolamento e trasformazione del paesaggio, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 1: Antichità e Medioevo, Adda Editore, Bari, p. 22

5. Compatangelo Soussignan R. 1999, Centuriazione senza coloni? Il caso di Canosa nel quadro della regio Apulia et Calabria: il territorio, in Gravina A. (a cura di), 17° convegno nazionale sulla preistoria, protostoria, storia della Daunia, San Severo, 6-7-8 dicembre 1996: la Daunia romana: città e territorio dalla romanizzazione all'età imperiale: atti, Archeoclub San Severo.

6. Novembre D. 1979, Vicende del popolamento e trasformazione del paesaggio, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 1: Antichità e Medioevo, Adda Editore, Bari, p. 26

7. Volpe G. 1996, Contadini, pastori e mercanti nell'Apulia tardoantica, Edipuglia srl, Bari, p. 362

8. Volpe G. 1996, Contadini, pastori e mercanti nell'Apulia tardoantica, Edipuglia srl, Bari, p. 199

9. Volpe G. 1996, Contadini, pastori e mercanti nell'Apulia tardoantica, Edipuglia srl, Bari

10. Volpe G. 1999, Per una storia dei paesaggi agrari della Daunia romana: il territorio, in Gravina A. (a cura di), 17° convegno nazionale sulla preistoria, protostoria, storia della Daunia, San Severo, 6-7-8 dicembre 1996: la Daunia romana: città e territorio dalla romanizzazione all'età imperiale: atti, Archeoclub San Severo, p. 155

11. Ibidem

12. Volpe G. 1996, Contadini, pastori e mercanti nell'Apulia tardoantica, Edipuglia srl, Bari, p. 367  

13. Volpe G. 1990, La Daunia nell'età della romanizzazione: paesaggio agrario, produzione, scambi, Edipuglia srl, Bari, p. 37

14. Volpe G. 1990, La Daunia nell'età della romanizzazione: paesaggio agrario, produzione, scambi, Edipuglia srl, Bari, p. 40

15. Licinio R. 1979, Economia e società nel basso Medioevo, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 1: Antichità e Medioevo, Adda Editore, Bari, p. 311-312

16. Mercurio F. 1989, Agricolture senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea vol. 1 - Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia, p. 144

17. Masella L. 1979a, Economia e società nel periodo spagnolo, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 30-32

18. Licinio R. 1979, Economia e società nel basso Medioevo, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 1: Antichità e Medioevo, Adda Editore, Bari, p. 312-ss.

19. Masella L. 1979a, Economia e società nel periodo spagnolo, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 32

20. Ivi: 31

21. Ivi: 39

22. Massafra A. 1979a, Economia e società nel Settecento, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 85

23. Russo S. 1989, Questioni di confine: la Capitanata tra Sette e Ottocento, in Masella L., Salvemini B., Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi - Vol. 7: La Puglia, Einaudi, Torino, p. 247

24. Massafra A. 1979a, Economia e società nel Settecento, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 85

25. Ivi: 88

26. Ivi: 90

27. Ivi: 91-92

28. Massullo G. 1990, Contadini. La piccola proprietà coltivatrice nell'Italia contemporanea, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea - Vol. 1: Uomini e classi, Marsilio, Venezia, p. 17


29.Massullo G. 1990, Contadini. La piccola proprietà coltivatrice nell'Italia contemporanea, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea - Vol. 1: Uomini e classi, Marsilio, Venezia, p. 14

30. Ibidem

31. Ibidem

32. Ivi: 17

33. Ivi: 15

34. Ibidem

35. Ivi:  16

36. Mercurio F. 1989, Agricolture senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea vol. 1 - Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia, p. 153

37. Massullo G. 1990, Contadini. La piccola proprietà coltivatrice nell'Italia contemporanea, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea - Vol. 1: Uomini e classi, Marsilio, Venezia.

38. Ivi:  16

39. Ivi:  18

40. Massafra A. 1979b, Dal decennio francese all'Unità, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 128

41. Ivi:  113

42. Ivi:  128-130


43. Ivi:  123

44. Lupo S. 1989, I proprietari terrieri nel Mezzogiorno, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea - Vol. 1: Uomini e classi, Marsilio, Venezia, p. 106-107

45. Ivi:  122

46. Ivi:  126

47. Massullo G. 1990, Contadini. La piccola proprietà coltivatrice nell'Italia contemporanea, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea - Vol. 1: Uomini e classi, Marsilio, Venezia, p. 20

48. Ivi: 21

49. Ivi: 22

50. Mercurio F. 1989, Agricolture senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea vol. 1 - Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia, p. 157

51. Ibidem

52. Ivi: 160

53. Ibidem

54. Ivi: 164

55. Russo S. 1989, Questioni di confine: la Capitanata tra Sette e Ottocento, in Masella L., Salvemini B., Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi - Vol. 7: La Puglia, Einaudi, Torino, p. 272

56. Ivi: 270

57. Russo S. 1989, Questioni di confine: la Capitanata tra Sette e Ottocento, in Masella L., Salvemini B., Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi - Vol. 7: La Puglia, Einaudi, Torino, p.

58. Russo S. 1989, Questioni di confine: la Capitanata tra Sette e Ottocento, in Masella L., Salvemini B., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi - Vol. 7: La Puglia, Einaudi, Torino, p.  270

59. Corvaglia E. 1979, Dall’Unità alla I guerra mondiale, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 144

60. Masella L. 1979b, Economia e società dall’Unità alla I guerra mondiale, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 150

61. Mercurio F. 1989, Agricolture senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea vol. 1 - Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia, p. 25

62. Masella L. 1979b, Economia e società dall'Unità alla I guerra mondiale, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 156-158

63. Mercurio F. 1989, Agricolture senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea vol. 1 - Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia, p. 30

64. Le economie territoriali della Capitanata già da molto prima della cosiddetta ‘globalizzazione’ spaziavano entro circuiti economici e commerciali più ampi: durante la transumanza, attraverso le carni ovine vendute nelle città del Regno (Napoli e Bari principalmente, ma anche Roma) e la lana commercializzata a Napoli, Venezia e altre città del nord; durante la fase del dominio della cerealicoltura (dai primi decenni dell'Ottocento sempre più marcata), attraverso transazioni a beneficio delle "fameliche capitali" da una parte e, dall'altra parte, mediante la vendita di olio e vino nei grandi circuiti internazionali dominati dalle marine inglese e francese (a beneficio dei rispettivi mercati).

65. Vedi: Ippolito I., Perrotta D., Raeymaekers T. 2021, Braccia rubate dall’agricoltura. Pratiche di sfruttamento del lavoro migrante, Edizioni SEB 27, Torino.

66. In questo senso, forse, si potrebbe criticare la presunta razionalità della categoria di “plantationocene” come epoca del capitale che avanza, rispetto a realtà che in Capitanata sembrano piuttosto essere ascrivibili a dinamiche ‘neofeudali’ (GDO che sottopone fasce produttive ai propri interessi di mercato). Ringrazio Antonio Stopani per questa e altre riflessioni scaturite da utili dialoghi sul presente testo.

67. De Felice F. 1979, Il movimento operaio e contadino nel Novecento, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 261

68. Corvaglia E. 1979, Dall'Unità alla I guerra mondiale, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 190

69. Corvaglia E. 1979, Dall'Unità alla I guerra mondiale, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 191

70. Ivi: 192

71. Mercurio F. 1989, Agricolture senza casa. Il sistema del lavoro migrante nelle maremme e nel latifondo, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea vol. 1 - Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia, p. 33

72. Ivi: 39


73. Pirro F. 1979, La Repubblica, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 205

74. Ivi: 208

75. Vitucci S. 1979, Lo sviluppo demografico e urbano nel Novecento, in Musca (a cura di), Storia della Puglia - Vol. 2: Età moderna e contemporanea, Adda Editore, Bari, p. 214

76. Ibidem

77. Ivi: 215-216

78. Vedi: Wimmer A., Glick Schiller N. 2002, Methodological nationalism and beyond: nation–state building, migration and the social sciences, “Global Networks”, 2: 301-334.

79. Questa riflessione intende semplicemente evidenziare il carattere strutturale delle forme insediative che miopi analisi definiscono “informali”; sottolineare la larga presenza di abitanti di questi ultimi nel settore agricolo è utile a tale fine. Occorre però ricordare come in tali centri abitati vivono tante persone che svolgono lavori in diversi altri settori, per evitare di perpetrare la riproduzione del falso stereotipo della persona migrante sempre e solo associata al lavoro bracciantile.








Author:  Edoardo Ciuffreda

Keywords:
Capitanata; migrazioni; insediamenti; PNRR; informalità.

Period: Novembre 2024
Place: Provincia di Foggia

Project:
In fieri



Contacts:
Collaborations
Website inquiries

Inappropriable is a research, a collective investigation and a condition of possibility which sets out to interrogate practices of inhabitation, infrastructures of life, of marronage and fugitive worldling, focusing on labour ecologies in territories of migration: frontiers where bodies, spaces and labour are reconfigured through extractive and plantation-like capitalist processes of accumulation, dispossession and exclusion.